06 Dic Il grande inganno dell’anima gemella
Ultimamente, grazie ai miei pazienti, e ad una in particolare a cui va la mia gratitudine, mi sono trovato a confrontarmi con il tema della mancanza di partner, che causa così tanta infelicità in tante persone di entrambi i sessi.
Era da un po’ che avevo voglia di scrivere qualcosa, che era lì ma che stentava ad uscire. Forse questa è la volta buona. Quando ho realizzato durante una seduta come l’inquietudine e la tristezza esistenziali sono in parte frutto di questo mito dell’altra metà, o dell’anima gemella, ho sentito una grande rabbia montarmi dentro. Mi sono confrontato brevemente col mio amico e collega Giovanni, che mi ha fatto notare che il padre di tutto questo è Platone, che nel “Simposio” parla degli androgini e di come in origine gli uomini fossero con quattro braccia, due teste, ed entrambi i sessi. Ad un certo punto Zeus decise di dividerli perché erano troppo potenti ed avevano cercato di destituire gli dei dando la scalata al monte Olimpo. Da qui la ricerca, per sentirsi completi, dell’altra metà.
Ora il punto è che “l’altra metà” nel 21 secolo è sicuramente una nevrosi ed un business. Allora l’immagine che mi è venuta in mente è che è come se dalla nascita ci convincessero (chi?) che siamo senza una gamba, e noi viaggiassimo nel mondo per ritrovare questa gamba ed essere interi. Finché non la troviamo, un tormento sottile ed insinuoso fa da sottofondo alla nostra esistenza. Mi sono domandato a cosa servisse questo mito, che arriva fino a noi da Platone e, di certo, ci sopravviverà. La rabbia che ho sentito la imputo sicuramente al fatto che si tratta, appunto, di un mito sociale per così dire, ovvero un qualcosa che la società ci fa passare, prima ancora delle nostre mamme che ci vogliono vedere “accasati” (e non parlo solo delle donne).
Questo crea un circolo vizioso di messaggi che ci mandiamo, per cui se non troviamo “the one” siamo indietro, fregati, mancanti, dei disabili relazionali. In nome di questa credenza siamo perfino disposti ad ignorare il desiderio di stare da soli, e ci impegniamo a fonderci nell’altro trascurando il contatto con noi stessi, creando ulteriore e stratificato disagio e senso di inadeguatezza. Ci lanciamo senza discernimento nei social network, su siti di incontri, app per il telefono che fanno matching (tinder per esempio).
Leggendo un po’ di articoli di varia estrazione inerenti il mito, mi sono reso conto che quella che viene portata avanti è l’importanza dell’unità. E mi è venuto un po’ da sorridere perché penso al fatto che per dividere la res extensa dalla res cogitans, e quindi per far esistere medicina e psicologia, ci è voluto Cartesio, parecchi secoli dopo, ed ora si stanno diffondendo nuovamente visioni unitarie ed olistiche (parola che non sopporto perché nel nostro momento storico raccoglie tutto ciò che vi è di indefinito ed anche una discreta quantità di ciarpame).
Al di là della ciclicità che si può notare e dell’innegabilità che siamo una cosa unica, che corpo e mente lavorano insieme e si influenzano, vorrei fare alcune considerazioni su questo che chiamo l’inganno dell’anima gemella.
L’ossessione nel cercare di trovare l’altro, fa esattamente l’opposto, ovvero l’altro lo allontana, dal momento che percepisce a livello non verbale la richiesta e la responsabilità di rendermi intero. La domanda è: ma come faccio a non far passare la richiesta, dal momento che intero non mi sento?
Io credo che si debba intervenire sulla credenza, e vedere se, quanto, ma sopratutto come governa la nostra vita e le nostre scelte. Intervenire sulla credenza vuol dire esplicitarla, in modo tale che anziché essere un qualcosa che subisco acriticamente (in quanto non sono nemmeno consapevole della sua esistenza), diventi una scelta. Una scelta prevede opzioni, ad esempio voglio stare da solo (e come ogni scelta è suscettibile di modifica nel tempo, ovvero è vincolata allo spazio-tempo, come anche l’amore stesso), oppure se mi va di accompagnarmi. Se mi permetto di avere delle opzioni tra cui scegliere, implico che una scelta valga l’altra e che quindi io sia disposto a sospendere il giudizio, e a parlarmi con una qualità che richiede allenamento: la benevolenza.
Mi rendo conto che nelle ultime 10 righe c’è un condensato di cose “difficili” da rendere a chi legge e da realizzare per chiunque stia facendo un percorso. Mi va comunque di buttarle giù, sono un convinto assertore del concetto di seminare e di intenzione, un po’ come a dire “buttiamo i semi, quello che deve nascere, nascerà”.
Il lavoro del terapeuta, quindi, è quello di accompagnare il paziente alla scoperta delle opzioni, poi la scelta la farà lui/lei.
Mi viene da considerare che per il “potere”, qualunque cosa sia, è importante mantenere l’uomo in uno stato di inadeguatezza e di mancanza, perché questo inquina la consapevolezza e la presenza, che poi sono le due cose che possono renderci veramente liberi (dove per liberi non intendo la libertà che garantisce internet o il benessere economico).
Mentre scrivo noto che, oltre alla difficoltà di quello che propongo, si tratta di un effetto cascata, che va dal particolare al generale. Nel mio piccolo l’essere non mancante ma in contatto con me stesso e con quello che voglio, mi porta a consapevolezza e assertività, passando al sistema successivo (inteso in senso Bronfrenbrenneriano) , porterò quest’assertività sul mio posto di lavoro, conseguentemente in contatto maggiore con me stesso, e questo a sua volta avrà un influenza sulla società in senso macro. E’ un’utopia, ma quello che conta è l’in-tensione, ovvero dov’è l’orizzonte che guardo (e questo fa l’etica). Mi sento di scusarmi se da ogni parola nasce un altro concetto, è un po come se stessi aprendo delle porte senza chiuderne nemmeno una. Forse mi va bene così, anzi voglio così, in modo tale che ognuno possa chiudere quelle che desidera come lo desidera.
Un’altra domanda che viene a questo punto spontanea è la seguente: perché ci facciamo sedurre dal mito di platone? Cosa c’è nella mancanza di così irresistibile e affascinante?
Quando mi è stata posta da uno dei miei revisori, mi sono preso del tempo per pensarci. E poi in realtà la risposta era proprio sotto al mio naso, hidden in plain sight. La mancanza è una benzina fantastica per portarci a giro nel mondo, per muoverci. É la benzina della “reazione a” , non mi devo prendere la responsabilità di agire e scegliere (ancora!) perché re-agisco, perché aspetto che uno stimolo esterno mi faccia muovere. Poco importa se questo reagire non mi fa mai scegliere né essere contento, né sentire soddisfatto. Mi sembra comunque più economico che decidere in base al mio gusto. Chiaramente la mia è una provocazione, un artificio che uso per far vedere a chi legge quelli che sono i vantaggi del non scegliere e dello sposare il senso della mancanza. Se non ho mancanza cosa/chi sono? Come faccio a muovermi? Con quale benzina?Quale obiettivo?
Sembrano domande banali, io non credo lo siano. Il nostro scopo principale è darci un senso, dapprima nella scuola (guardate le macchiette dei vari ruoli nella società scolastica) e poi col lavoro, con la famiglia, ecc. Tutto ci identifica e ci dà senso. La differenza tra re-agire ed agire è se il senso me lo do a partire dal contesto o da me stesso. Ed è la stessa differenza che c’è tra mangiare e stare a guardare. Io credo che l’obiettivo di ogni terapia sia quello di allenarsi ad agire in ascolto di sé. Buona ricerca
PS: queste righe non sono un accusa o una svalutazione della vita di coppia, vogliono essere uno stimolo di riflessione per quelle (tante) persone che viaggiano convinte di non essere interi e di non bastarsi se non sono in coppia.
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